Tutte le mattine la mia giornata inizia al campo di Lipa, la cucina in cui risiedo si apre verso le 10 del mattino. Mi portano al container della Croce Rossa, mi riempiono di acqua calda bollente, poi mi spostano di nuovo al Social Café del campo. In quell’acqua delle persone lasciano cadere diversi chili di polvere dolce, questa si scioglie lentamente dentro di me senza fare grumi. Contengo un liquido denso e profumato, forse troppo dolce, ma so che servirà a molte persone per iniziare la giornata: il caffè. Alle 10.30 aprono il mio coperchio, sbuffo una nuvola di vapore e comincio a svuotarmi. Mentre servono dalla mia pancia il caffè fumante sento lingue diverse, le speranza di un nuovo giorno che sta per iniziare e i dolori di chi si sente condannato a questo posto. Sento parole e suoni che si chiedono a vicenda domande umane “come stai?” “I am fine” “I did not cross” “friend is in Italy now”.
Da lontano ascolto lo scorrere delle palline sul tavolo del calcetto, e il fastidioso rimbalzo vuoto delle palline da ping-pong. Oltre a questo sottofondo se mi concentro posso sentire gente che si presenta e si racconta. Nell’ arco di pochi minuti, a volte poche ore, sono di nuovo vuota. Sento la brocca, usata per trasferire il caffè nel bicchiere, raschiare il fondo. Percepisco la suspence o, meglio, la speranza del prossimo ospite che si augura di avere una delle ultime porzioni di caffè. Non contengo mai abbastanza caffè per tutti, mi frustra essere limitata e a un certo punto dover dire di no, che non ho più nulla dentro da dare e scambiare con ciò che sta fuori.
Sono una manjerka1, uno dei simboli più descrittivi delle distribuzioni sui grandi numeri. Posso contenere diversi litri di liquido e mantenerli caldi per ore; sono di acciaio inossidabile; non mi guasto facilmente e non arrugginisco; posso durare per anni senza scalfirmi, o almeno credo.
In media, passano dal Social cafè 400 persone al giorno, ed io riesco a soddisfare le necessità mattutine di circa un centinaio di loro. Mi chiedo come assaporeranno il mio caffè, se gli piace, se la quantità di zucchero sarà per loro abbastanza. Sono curiosa di sapere se berranno il mio contenuto in silenzio o fumando, oppure se si racconteranno nuove idee su come arrivare in Europa sorseggiando la cosa più simile a un caffè che si può trovare in questo campo. Mi sento in un posto così interessante, testimone partecipe di questo grande fenomeno migratorio di cui posso vedere le delicate e personali sfumature. Entrano in contatto con me migliaia di anime diverse che hanno singole storie da raccontare, una ad una. Una mano alla volta passa sopra il mio coperchio per afferrare il caffè. Una mano alla volta.
Penso ai grandi numeri scritti sui giornali e le teorie dell’Accademia, ai nomi diversi della violenza e alle riunioni di chi cerca di gestire tutto questo. Riesco a comprendere solo una parte di ciò: sono una manjerka: conosco le persone mi sembra difficile collocarle nei grandi discorsi e analisi su quello che succede qui intorno.
A un certo punto mi mettono al contrario, è l’ultimo bicchiere. Mi lavano e torno lucida e splendente, giusto in tempoper domani. Non mi svuoto mai del tutto: al posto del caffè caldo, denso ed omogeneo, mi riempio di voci. Mi riempio di parole e chiacchiere dei miei proprietari bosniaci, delle fatiche e delle battute di alcune italiane, mi riempio di storie che passano in questo spazio comune. A volte, alcune di queste emozioni sono troppo anche per me. Eppure sono fatta di metallo isolante, o forse è proprio per questo chea volte, le conservo tutta la notte, fino al giorno dopo.
A differenza della manjerka io non sono inossidabile e mi posso scalfire. Non bastano 8 litri di acqua calda per farmi sentire pronta a una nuova giornata. Anche io al mattino raccolgo il massimo delle mie energie per poter poi scambiare attraverso la voce e i gesti tutto quello che ho con i nuovi amici che incontrerò. Le energie durante la giornata scemano, si affievoliscono, ma non resto mai davvero vuota. È come se mi riempissi di altro, di voci, di immagini e di suoni. Cerco di custodire il calore di queste storie, senza sapere dove metterlo. Quando mi apro, uno sbuffo dà il via alle mie conversazioni perchè non so da dove cominciare per raccontare cosa sto facendo, e tantomeno so che parole usare. Vorrei essere più presente per tutti e parlare tutte le lingue del mondo, eppure posso solo captare i mille stimoli di questo posto fino a sera, quando torno a casa, mi faccio una doccia e aspetto che arrivi una giornata nuova, che il primo caffè della giornata mi svegli e mi riempia di nuove energie da scambiare.
1Manjerka è il nome bosniaco che si usa per descrivere il dispenser termico usato nelle grandi distribuzioni di cibo e bevande