Il 16 novembre, nel cimitero Humci a Bihac’, ha avuto luogo l’inaugurazione di diciotto tombe di persone vittime della frontiera, che hanno perso la vita cercando di raggiungere la ‘fortezza Europa’. Si tratta dei morti seppelliti dal 2019 ad oggi: ad alcuni sono riusciti a dare un nome, ma la maggior parte viene indicata come ‘NN lice’, che sta per ‘persona non identificata’ in bosniaco. Nessuno di loro superava i 40 anni di età, alcuni non erano neanche maggiorenni.
Le tombe, che si trovavano già nel cimitero da alcuni anni, erano in gran parte fatiscenti e abbandonate. La riqualificazione è stata realizzata grazie alle associazioni SOS Balkan Route e LeaveNoOneBehind, che hanno lavorato insieme alla municipalità, ai rappresentanti della società civile e delle comunità religiose della città.
Ho partecipato alla commemorazione insieme alle mie colleghe e a Silvia Maraone, a capo del progetto di IPSIA in Bosnia Erzegovina, che come cittadina che vive in questo luogo e si occupa di queste tematiche da anni, dal 2018 ha contribuito a dare degna sepoltura a quattro persone e di mantenere le tombe pulite e ordinate, in modo che non venissero dimenticate. Quel giorno abbiamo portato i fiori e abbiamo posto una rosa su ognuna di quelle tombe nere e lucide, appena posate sul terreno. Una lapide commemorativa è stata posta alla base di queste, e recita: “In memoria di tutti i rifugiati e i migranti i cui sogni sono morti insieme a loro nella ricerca per una vita migliore”.
La morte ingiusta e precoce di queste persone non è stata naturale, ma causata dalle politiche migratorie europee e da questo confine sempre più militarizzato. Basta alzare gli occhi, anche dal cimitero si può vedere. Di fronte a noi sulla Pleševica si staglia il confine, reso ancora più evidente da una striscia di terra realizzata sradicando e abbattendo la vegetazione per poter controllare e stabilire meglio la demarcazione tra la Bosnia Erzegovina e la Croazia, diventata porta per l’Europa.
Guardo questo confine e so che anche oggi, mentre sono qui a commemorare la morte di queste persone, mentre ci diciamo che non dovrà succedere mai più, c’è chi sta rischiando la vita per l’ennesima volta cercando di avvicinarsi un po’ di più alla sua meta, alla sua famiglia, ad un sogno di stabilità e di vita migliore. C’è chi sarà respinto, picchiato, umiliato dalla polizia croata e da tante altre polizie di confine lungo questa rotta balcanica ormai nota per la sua violenza sconsiderata. So che li incontrerò lunedì a lavoro, quando apriremo i Social Café nei campi di Lipa e Borici: mi racconteranno le loro storie, li vedrò arrivare con graffi e stampelle, con i cellulari rotti e senza scarpe, perché le hanno perse dopo che li hanno costretti ad entrare nel fiume gelato di notte. Ma nonostante tutto, li sentirò ancora ridere e scherzare tra loro, giocheremo a biliardino e cercheranno di insegnarmi i trucchi migliori per fare goal. Parleremo di cibo marocchino e dei quartieri di Beirut, dei familiari e degli amici che non vedono l’ora di incontrare in qualche paese europeo, o dei figli che vogliono riabbracciare.
La violenza e la repressione non potranno mai essere sufficienti a bloccare il bisogno e il desiderio di costruire una vita migliore, che rispetti i diritti fondamentali di ogni persona, e nessun confine, per quanto militarizzato e controllato, sarà in grado di fermare tutto ciò.