Un riflessione di Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti a tutela dei rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica in Bosnia Erzegovina e Serbia.
Li vedi camminare - SEMPRE - nella neve, sotto la pioggia, sotto il sole cocente.
Con la testa verso il basso, le spalle chine. Portano zaini tutti uguali sulle spalle, le scarpe a brandelli, i piedi lacerati, le mani con le bolle e le ferite. Un odore di legna bruciata li circonda e umidità. Capelli arruffati, barbe incolte.
Le donne con vestiti troppo larghi o troppo stretti. I bambini, con le scarpe spaiate, la faccia sporca di cioccolato o succo di frutta, agitati, che corrono, che non sanno stare.
E’ un popolo in cammino. E’ un’umanità dolente in cammino, sembrano animali condannati al macello che camminano lenti verso un destino di incertezza e dolore, che chissà quando terminerà.
Chissà cosa hanno lasciato alle loro spalle, cosa li aspetta dietro le montagne, quanti giorni dovranno stare nascosti nei boschi. Chissà se hanno portato abbastanza cibo per finire il viaggio, se dovranno bere l’acqua delle pozzanghere. Chissà se riusciranno a nascondersi sotto i teli cerati dei camion, o in quanti saranno a viaggiare tra scossoni e sobbalzi dentro i furgoni. Quanto avranno pagato i loro passeur? Quanto avranno pagato i loro “agenti”? La polizia li fermerà e li bastonerà a sangue? Le donne verranno dileggiate e oltraggiate? Cosa resterà impresso negli occhi dei bambini a vedere i loro padri e fratelli maggiori urlare e piangere con la bocca impastata di sangue e le ossa rotte dai manganelli?
Tutto questo non succede. Se non lo vedi, non succede.
La coscienza collettiva del mondo non le vede le mani bruciate dal fuoco, i piedi scarnificati, i nasi rotti. Non lo sente quell’odore di urina e copertoni bruciati.
Non si percepisce da lì che cos’è questo esodo di scheletri in marcia verso un sogno che non si realizzerà.
Sono corpi senza volto, brandelli di vestiti che si muovono nella notte, che si vedono respinti da tutti. L’odio cova e serpeggia, in Italia, in Bosnia Erzegovina, in Grecia, in Francia. Ovunque. L’odio sotto pelle brucia nelle vene di chi ha decretato il suo verdetto.
Colpevole.
Di essere nato in un Paese che si chiama Afghanistan, Pakista, Iraq, Siria, Marocco, Nepal, India
Colpevole.
Di essere africano.
Colpevole.
Di esistere.
Che mondo è questo? Che battaglia stiamo cercando di combattere? Avrà mai fine? A quanta sofferenza si deve ancora assistere? A cosa serve quello che facciamo?
Il 20 giugno ci ricorda con squilli di tromba e molti hashtag che è la giornata mondiale del rifugiato. Giornata inventata dalle Nazioni Unite per celebrare il coraggio e la forza di chi è in fuga dal suo Paese.
Celebriamo il vuoto esponenziale di una cultura abituata sempre di più a dividere, anziché unire.
Lo slogan del 2021 recita: Together we can do everything.
La verità è che non c’è nessun “insieme”, ma c’è sempre un loro e un noi.
Fino a quando questa discrasia andrà avanti e fino a quando loro non saranno noi, quell’umanità che porta con sé odore di bosco e fumo e paura, aleggerà sulle nostre coscienze e come spiriti inquieti ci guarderanno con i loro occhi enormi e spalancati a chiederci perché.