Dopo 70 anni dall’inizio del conflitto arabo-palestinese/israeliano a maggio l’ennesima guerra su Gaza.
E' disarmante chi si trova ancora, chi scrive e pretende si condivida la "vera" e autentica, quanto politicamente inutile, ricostruzione dei fatti di questi giorni, assegnando colpe e compiti a chi avrebbe sbagliato.
Dopo 30 anni di fallimenti negoziali tra le parti, la leadership politica israeliana trasformata in un comitato d'affari della destra nazionalista e ultra religiosa e il movimento di liberazione della Palestina passato da posizioni laiche e socialiste a succube del fascismo radicale islamico, il casus belli è sempre dietro l'angolo. Basta attendere l'occasione o il concorso di eventi utili.
E' dal ritiro unilaterale delle colonie ebraiche da Gaza fatto da Sharon nell agosto del 2005 (ritiro invocato ai tempi da tutto il mondo internazionale e pacifista, ma come si è visto non pare servito molto) che un anno si, e uno no, assistiamo a questo teatro, a queste albe tragiche e di sangue su Gaza e le vicine città israeliane, spesso in occasione delle festività religiose islamiche e di ricorrenze nazionali israeliane divisive.
E allora non viene il dubbio che siano mosse calcolate? Dove ognuna delle parti sa che ha da guadagnarci nel mantenimento dello status quo?
Hamas (che venne a suo tempo aiutata da Israele in chiave anti Arafat) rimane di fatto un'organizzazione terroristica. Basta leggere l’ultimo report di Guido Olimpo sul mercato delle armi da guerra e la lotta con il Mossad .
Dall’altro la contestata, ma che gode sempre di largo consenso, politica di Netanyahu; uno sfogo militaresco e machista, dipinto tutte le volte come risolutivo e indice solo del palese fallimento a ripetere sempre gli stessi comportamenti fatti di azioni e rappresaglie e controrappresaglie che lasciano solo morti in attesa della prossima vendetta.
Chi non si dispera davanti a un bambino morto in un bombardamento? Ma utilizzare i civili come scudi umani contro le bombe come fa Hamas non è meno grave che lanciarle pur sapendolo, come fanno invece a Tel Aviv. Vicenda che meriterebbe solo l’intervento della corte penale internazionale
Qualcuno ha scritto "passano gli anni (e i conflitti), ma i commenti rimangono immutati. Ad ogni lancio di razzi, ad ogni attacco in rappresaglia le reazioni, soprattutto in certi ambienti, non evolvono, non si trasformano, rimangono fedeli alla prima scrittura. Nessun tentativo, di leggere la storie e le responsabilità, solo tifo, talvolta sofisticato, talvolta becero.
In un contesto drammaticamente polarizzato noi che abbiamo la fortuna di essere esterni dovremmo esercitare il discernimento che non significa terzietà, ma significa dimostrare equo-vicinanza e solidarietà alla popolazione civile palestinese e israeliana, anziché ridare legittimità politica a dei morti che camminano
La drammatica novità politica di questa nuova guerra, senza nulla togliere alla tragedia dei bombardamenti, e che in tante città miste di Israele vi sono state rivolte, linciaggi di ebrei e palestinesi, incendi di sinagoghe e negozi arabi. Disordini dove spesso l’innesco dato da gruppi provenienti da fuori e non dai residenti, ma in ogni caso sono un segnale preoccupante, anche se si sono viste subito reazioni di chi non accetta questa situazione. Andatevi a leggere le testimonianze dei palestinesi che vivono nel villaggio arabo/israeliano di Neve Shalom/Wahat al Salam sotto la minaccia dei razzi di hamas.
Quindi per quanto la bolla dei social non sia in grado di rappresentarne la forza reali, nelle città miste vi sono tante persone, gruppi e associazioni minoritarie che provano a mantenere un dialogo, una coesistenza per vivere in pace. Minoranze certo, additate dalle rispettive parti perché parlino con il nemico. Questa è la società civile in medio oriente che dovrebbe sentire la nostra vicinanza. E' l ultima speranza, se cade quella ogni ambito di convivenza internazionale, religiosa, culturale, è destinata a svanire. Non servono ne a noi, ne tanto meno a loro, i tifosi con la kippah o, di gran lunga i più numerosi, militanti italiani con la kefiah a scacchi bianco neri.
E' evidente che le parti lasciate a sé stesse non troveranno mai pace ma si avviteranno in una continua spirale autodistruttiva. Servirebbe imporre un DISARMO unilaterale, sia materiale che delle menti una proposta di vera discontinuità che ribalti il tavolo da gioco e lo scacchiere, dove giocano solo le pedine mosse dalle potenze regionali che esercitano potere ed egemonia sull' area.
Se non fosse completamente screditato, servirebbe l'ONU come forza di interposizione e mediazione fra le parti, anzichè limitarsi a gestire con agenzie corrotte soldi e aiuti che in larga parte non sono mai arrivati ai rifugiati palestinesi.
Servirebbe un nuovo Rabin, servirebbero istituzioni religiose che pacificano gli animi anziché soffiare sul fuoco del fanatismo.
Ero a Ramallah e Betlemme con una delegazione del Comune di Milano, nell estate del 2000 quando erano in corso i negoziati di Camp David... respiravi tre le persone comuni la speranza di una prossima soluzione.
Che errore storico quello di Arafat ad aver rifiutato la proposta. Mai più un governo israeliano fece una proposta così ampia a favore della Palestina come quella del premier israeliano Barak. Arafat rientrò vittorioso perché agli occhi delle "masse arabe" non aveva ceduto. E poi scoppiò la seconda Intifada e gli attentati kamikaze palestinesi. Barak tornò a casa sconfitto perse le elezioni e da allora solo la destra nazionalista e la sempre maggiror influenza deli partiti religiosi estremisti, e da 13 anni solo Netanyahu e il muro di separazione, la continua espansione degli insediamenti coloniali… Però Arafat non aveva ceduto.
C’è da sempre un problema più complessivo connesso all'identità. Per entrambe le parti, quando vai a stringere sui temi controversi, concedere su qualsiasi punto è mettere a repentaglio la propria identità
Ma bisognerebbe avere l onestà morale e intellettuale di dirsi una volta per tutte che è inutile e senza senso, pensare di riavvolgere il film e le mappe al 1947. Quel mondo è finito e non tornerà. E i profughi palestinesi (del 1948) non rientreranno nelle loro case, se non solo in maniera simbolica e limitata.
Interroghiamoci così per fare un esempio, su un tema analogo che ha coinvolto l’Italia, cosa sarebbe successo ai nostri confini orientali se alla richiesta di ingresso di Slovenia e Croazia nell unione europea, l'Italia, seguendo le proposte della destra nazionale, avesse opposto un processo internazionale sulle foibe il recupero di tutti i beni confiscati e il rientro di 500 mila esuli italiani giuliani cacciati da Tito negli anni '50?
Il tema dei confini delle terre e della giustizia riparativa è delicatissimo e deve essere sottratto agli apprendisti stregoni..
Più di ogni altra cosa servirebbe proprio che le parti riconoscano, nelle parole e nei fatti, la loro reciproca identità e la legittimità di entrambi ad esistere e vivere su quella terra.
In assenza di questo passaggio ogni piano accordo roadmaps, rimarrà sulla carta e i loro sfortunati popoli, come l’Angelo di Walter Benjamin, resteranno con lo sguardo rivolto al passato a contemplare le macerie della storia.
E Israele sembra avere smarrito il filo di una missione: usare la forza al servizio di una pacificazione durevole. Al punto in cui siamo, tenuto conto del rapporto di forze in campo, e con in mano una cartina della regione mi chiedo sommessamente se è ancora un senso parlare di Due Popoli Due Stati, se sia ancora quella la strada da intraprendere.
E forse chissà servirebbe ritornare anche al sogno umanista delle sinistre mediorientali e del grande filosofo e teologo ebreo Martin Buber, una proposta presto eclissatasi a causa del prepotente emergere da entrambe le parti di uno sciovinismo nazionalista), unico stato binazionale, ebrei e musulmani tutti cittadini liberi e uguali di una stessa nazione laica e democratica.
Mauro Montalbetti - Presidente IPSIA